In passato ero una ragazza piena di vita ed energia, con molti progetti per il futuro. Non facevo caso a cosa mangiavo né a quello che bevevo, qualsiasi cosa andava bene. Fumavo un pacchetto e mezzo di sigarette al giorno, non mi interessava molto quanto dormivo e non mi facevo troppe domande sulla salute. Lavoravo di giorno e mi divertivo la sera, nella movida romana. Ero una ragazza come tante, con poche preoccupazioni, pochi problemi. A un certo punto ho iniziato a notare che avevo la dispnea, il mio respiro sembrava corto e affannoso, avevo difficoltà a fare le piccole cose a cui ero abituata, per esempio salire le scale, una passeggiata lunga, correre per prendere un autobus, e così via. Insomma, facevo fatica a respirare in situazioni in cui non ero a riposo, come se nei miei polmoni entrasse solamente un piccolo soffio di ossigeno. La cosa mi preoccupava un po’ ma non ho dato molto peso alla situazione, pensavo fosse stanchezza o le sigarette. Ho continuato imperterrita a fare le cose di tutti i giorni, però con una crescente fatica. Un giorno, a lavoro, ho avuto una specie di mancamento, seguito dalla difficoltà nel parlare, biascicavo lentamente le parole, sembravo ubriaca. Giorni dopo al lavoro iniziai ad avere difficoltà anche nello scrivere, un episodio molto strano e dal lavoro mi mandarono subito a casa. Alcuni giorni più tardi andai a farmi visitare, a Roma dove risiedevo e lavoravo, al S. Camillo. Il neurologo scontento del risultato della risonanza magnetica, comunque negativa, mi fece fare un ecocardiogramma e le consuete analisi del sangue. Aveva il sospetto che avessi avuto un ischemia cerebrale provvisoria (si chiama TIA) e voleva indagare oltre.
Dopo tre mesi di day-hospital riuscì ad avere una diagnosi: Severa Ipertensione Arteriosa Polmonare Primitiva, cioè idiopatica, una condizione medica le cui cause principali sono ancora sconosciute.
Il primario di cardiologia del S. Camillo mi disse che avevo una malattia degenerativa rara, rapidamente progressiva e fatale. Non aveva un viso particolarmente simpatico, prendevo ogni sua parola letteralmente come un graffio, un colpo. Questo dottore mi diceva che la mia malattia poteva portarmi alla morte prematura, se io non avessi deciso di andare a Pavia dove il mio caso poteva essere studiato e dove avrei potuto ricevere le cure più appropriate. Dopo avermi consigliato un anticoagulante, il medico mi salutò e se ne andò. C
on gli occhi spalancati per lo stupore, non ho potuto evitare lacrime a fiotti. Il mio compagno mi attendeva fuori, e quando gli dissi della malattia rara ricordo che rimase perplesso almeno quanto me.
Questo medico, un luminare della medicina, mi ha completamente distrutto, mi ha tolto tutta la forza psicologica che avevo, ha fatto il suo “lavoro” nel comunicarmi la diagnosi ma con una tale freddezza che mi ha fatto sentire aliena nel mio corpo, non ha avuto un minimo di umanità nel comunicarmi le poche informazioni che aveva riducendo il tutto a sottolineare che avevo una malattia per cui non c’era quasi più niente da fare. Mi sono sentita come un tappetino consumato e in disuso. Le orribili possibilità riguardo al mio futuro erano in effetti vere ma sparare sentenze a chi si trova disarmato è da vigliacchi, non mi ha fornito sul momento altre spiegazioni, niente, si è solo limitato a dirmi di andare a Pavia, a rischio di morte.
Questo atteggiamento, per una testarda come me, non è stato di nessun aiuto. Anzi, ho avuto la reazione opposta, e ho cercato di evitare i medici, facevo altre visite e consultazioni solamente per l’incessante spinta di amici o parenti. Sono stata colta da una paura indescrivibile, ho visto la mia vita accartocciata in un malloppo irriconoscibile. Questo dottore mi ha proiettato in un abisso, più in basso non si poteva andare. Non si aiuta così una paziente. N on avevo la possibilità di trasferirmi a Pavia, e non sapevo che fare. Potevo essere al capolinea della mia vita e mi è venuto il panico. Sperai che il castello di congetture mediche potesse crollare, sostituito da una teoria nuova, magari salvifica. M i sono semplicemente lasciata andare.
Ho poi consultato altri cardiologi, che mi hanno confermato la stessa diagnosi, tutti preoccupati per l’immensa dilatazione del mio ventricolo destro. O gni volta che prendevo un lavoro nuovo, finivo presto in ospedale con un altro episodio ischemico transitorio, e perdevo il lavoro appena preso. Era un continuo ormai, un vero incubo. Iniziai la fase di negazione della malattia, che durò circa quattro anni. Per tutto questo tempo, ho cercato di provare a me stessa che i dottori si erano sbagliati. Facevo di tutto, stancandomi parecchio pur di provare che non avevo l’ipertensione polmonare. Sono rimasta casualmente incinta, e la cosa si è risolta con un aborto naturale: il mio corpo non ce l’avrebbe mai fatta a portare una gravidanza fino in fondo, l’istinto di sopravvivenza ha avuto la meglio. In quel periodo ho avuto la mia prima diplopia, che mi ha fatto trascorrere una settimana al Policlinico di Roma, in una torrida estate romana. I l mio compagno, che mi ha accompagnato in tutto il percorso, mi consigliò di andare da un naturopata-iridologo che gli aveva migliorato la vita, se non praticamente salvata.
Dal 2002 al 2006
Questo naturopata-iridologo non mi avrebbe infilato aghi nelle vene o spaventato con altri ingegni invasivi, come ero stata abituata per cui accettai di vederlo. I l dottor Hyeraci, in effetti, ha rivoluzionato la mia vita mettendo ordine in quello che mangiavo e bevevo; da quel momento iniziai a partecipare attivamente al mio benessere, facendo più caso a ciò che mi succedeva. Dall’alimentazione, mangiando le verdure, le proteine, facendo il pieno di vitamine, minerali e antiossidanti – la papaya fermentata è tuttora il mio antibiotico naturale e il Bronvis come sciroppo per la tosse e mal di gola – all’essere attenti alle ore di riposo, disciplinando la mia vita intorno alla salute, prendevo ad esempio anche medicine fitoterapiche per lo stress (causa che accelerava il malessere in un modo esponenziale). Questo è stato il mio primo approccio al volermi bene, un fatto di cui avevo un estremo bisogno. Durante quei quattro anni non ho più avuto altri episodi ischemici transitori. Nonostante mi sia rimasta l’impossibilità di fare sforzi importanti, i miei giorni poco a poco riprendevano un flusso normale. Rimanevo stabile: non miglioravo né peggioravo. Verso la fine di questi quattro anni, mi trasferii a Milano per un lavoro nel campo dei cartoni animati, una possibilità che mi entusiasmava parecchio. Si lavorava tanto, tutti i giorni fino a tardi e nei weekend se necessario. Sono passata da un regime alimentare pensato e voluto per sostenere il mio benessere, alle solite abitudini malsane, mangiando qualunque cosa capitasse, soprattutto biscotti al cioccolato tra un disegno e l’altro. Dormivo poco, ero molto nervosa per il lavoro e il trasferimento definitivo a Milano. Ero tesa come la corda di un violino. In questo frangente ho avuto di nuovo un episodio ischemico transitorio che è stato scambiato per una brutta indigestione. Ho avuto enormi giramenti di testa e mi sono sentita schiacciata a terra, la sensazione è stata quella di avere come un peso brutale addosso, credevo di morire! Ho tenuto nascosto ai dottori che avevo l’ipertensione polmonare per cui non potevano che arrivare ad altri tipi di conclusioni, non volevo perdere il lavoro. Dopo quasi sei mesi a questo ritmo, sono stata sorpresa da un ischemia non provvisoria: un brutto ictus cerebrale.
Nel 2007
Mi ricordo che l’ambulanza mi portò a una casa di cura con un’unità ictus, vicina alla nostra abitazione. Io in barella con il lato destro del corpo paralizzato, mi chiedevo cosa fosse successo. E tanto per peggiorare la situazione, sono finita in quella che sarebbe stata poi chiamata la “clinica degli orrori” di Milano (la clinica Santa Rita chiamata così per l’efferatezza del reato di truffa ai danni di pazienti soprattutto anziani, un’ottantina di casi di lesioni e qualche omicidio volontario). Secondo me, la morte era contentissima di aspettarmi lì, si stava praticamente sfregando le mani… Infatti, per tre giorni nessuno sapeva dire se sarei sopravvissuta. Questo episodio era il culmine di tutto il mio percorso fin qui. I
l mio compagno non si muoveva dalla sedia accanto al mio letto, giorno e notte, fino a quando una delle mie sorelle non gli ha dato il cambio per alcune notti. Lui osservava, scrutava, mi accompagnava, desiderava che io ne uscissi al più presto, ha conosciuto infermieri, medici e pazienti, praticamente vivendo lì. Data anche la moralistica burocrazia di posti come questo, ha persino litigato animatamente col neurologo a capo del reparto, dopo l’ennesimo rifiuto a dargli gli esiti delle mie diagnosi quotidiane… e quel neurologo ha decisamente cambiato idea da quel momento in poi (ancora mi fa ridere questo episodio). Comunque, non ho sentito più le raggelanti equazioni di come sarei potuta finire.
Con mia sorpresa, il mio compagno era più vicino a me di quanto avessi mai pensato e creduto. Nei suoi occhi c’era molta preoccupazione ma mi rasserenava trovare quello sguardo, profondo e affettuoso, che mi chiamava a vivere.
“Voluminosa lesione ischemica del territorio della cerebrale media sinistra. Emisindrome sensitivo-motoria destra e afasia espressiva. Buona comprensione” diceva la diagnosi. Ero sgomenta per aver avuto un episodio così grave. N
on ho mai perso conoscenza, il pensiero mi funzionava bene: mi trovavo ad avventurarmi in un nuovo territorio nel quale il pensiero era il mio alleato. Ero quindi presente con la testa, anche se non potevo parlare né avevo forza per muovermi. Dormivo molto, penso che il corpo volesse riparare da sé quello che si era danneggiato.
In quel momento mi intristiva non riuscire a vedere il capitolo successivo, non riuscivo proprio a vedere mentalmente la proiezione della prossima scena. Credevo che il mio tempo di vita stesse per finire. C’era il buio totale, capivo che se mi fossi lasciata andare, la morte mi avrebbe acchiappata. Era come avere il peggiore degli incubi.
Spoglia di tutto, ho dato rilevanza a ciò che ancora mi funzionava, la sfera mentale. Io che avevo fatto meditazione, che avevo cercato un passaggio per vedere e sentire altri mondi, avevo allora gli strumenti adatti per tirare le somme della mia esistenza. E così feci.
Almeno una volta nel corso della nostra vita, accade di dover ricostruire e mettere insieme dei frammenti del nostro essere, in quel momento in frantumi, di seguire una tenue ma raffinata filigrana che ci collega alla vita. Mi concentrai, come se stessi parlando a me stessa. Ho spontaneamente visualizzato una donna, forse me o forse qualcuno che mi voleva ascoltare, e mi sono lasciata trasportare in territori nei quali la mente rischia di perdersi. Sentivo di avere campo libero per riflettere su quello che credevo fosse stata la mia prigione – ovvero la mia vita fino a quel momento – e da cui, fino ad allora, non potevo scappare: ciò che fino a quel giorno avevo raggiunto e ciò che avrei dovuto invece raggiungere. Dopo aver percorso una certa distanza dalla mia zona di conforto capii che tutto può cambiare, ciò che percepivo come reale invece non lo era, ciò che credevo indelebile e destinato, non lo era affatto! È bastato cambiare idea sulla mia esistenza per fare luce dentro di me e darsi accesso a un giacimento inesauribile di possibilità.
Ho ritrovato un equilibrio, soddisfatta di questo viaggio interiore.
Aprendo gli occhi guardai il mio compagno con amore e mi addormentai.
Il giorno seguente, non ci volevo credere: cominciai a migliorare a vista d’occhio. Riuscivo a muovermi, davanti agli occhi stupefatti dei neurologi. E questo è il primo miracolo! Viva la volontà! Nonostante i miglioramenti, il neurologo capo reparto del Santa Rita insisteva affinché – parole sue – io fossi “aperta”, per verificare “come stavo messa con l’ipertensione polmonare”, d’altro canto la clinica si è resa famosa per le inutili operazioni costate milioni allo stato, nel mio caso poteva risultare fatale. Fortunatamente un eccellente giovane cardiologo del Santa Rita, che aveva fatto il praticantato al Monzino, una volta visitatami, mi fece trasferire d’urgenza al Cardiologico Monzino di Milano, dove era certo che mi potevano seguire al meglio.
Centro Cardiologico Monzino
Al Monzino mi hanno fatto tutti gli esami per capire la mia condizione effettiva. Ho fatto il primo cateterismo (un test invasivo per prendere i valori precisi del mio cuore): avevo una pressione polmonare di circa 140 mmHg – la pressione di una persona normale è di circa 25 mmHg.
Ridotta capacità funzionale di grado severo associata a limitazione ventilatoria per alterazioni del rapporto vascolare-polmonare.
Ero davvero nei guai.
Ho conosciuto il team di medici cardiologi molto preparati, anche nell’affrontare questa malattia ancora poco studiata all’epoca. Mi hanno accolta, facendomi sentire normale, senza nulla di straordinariamente sbagliato. Ero stupita! Nessuno nell’ambito medico mi aveva mai trattata così. La cosa mi piacque molto, mi hanno ridato la serenità che avevo perso anni prima. Nessuno fino ad allora aveva chiesto il mio parere su un particolare medicamento o medicina da prendere, se me la sentivo di prendere. Hanno conquistato la mia fiducia e sono davvero stati grandi!
Al Monzino ho conosciuto il dottor Bussotti e ho raggiunto la consapevolezza che molti dottori sono dei guaritori senza che lo sappiano effettivamente. Nessun medico mi aveva fatto sentire la libertà di venirgli incontro a metà strada per vincere una causa comune, e per questo lo ringrazio infinitamente. R icordo che un’amica infermiera mi diede un pezzo di carta dove aveva scritto il numero di un dottore molto conosciuto in Lombardia, che cura con la medicina naturale e una dieta in base al gruppo sanguigno. Era una strada da provare, mi disse l’infermiera, contemporaneamente alle cure mediche che già stavo facendo. Io non ho dato molta importanza a questo contatto, non credevo che poteva migliorare ulteriormente il mio stato di salute, soprattutto visto le mie esperienze precedenti a Roma. Lei mi disse che il dott. Mozzi era diverso, che dovevo andare da lui. Il numero del dottore rimase appoggiato sulla mia scrivania per tanto tempo, lo vedevo ogni giorno e mi ripromettevo di chiamarlo più in là. Quando tornai a casa dal Monzino, il mio compagno si prese cura della mia alimentazione e di tutto quello che mi riguardava. Mi dava forza per aprirmi al mondo visto che ancora non parlavo, né riuscivo a muovermi bene. Mi vergognavo molto a cercare di parlare, emettevo mugugni nel tentativo, ma lui mi faceva sentire come la persona più importante del mondo, e quindi mano a mano superavo le mie paure e vergogne, un passo dopo l’altro, una stretta di mano dopo l’altra (era complicatissimo per me riprendere a poter impugnare con forza oggetti come una forchetta), dovevo avere il coraggio di ricominciare.
Non è stato affatto facile rimettermi in gioco. Non dovevo e soprattutto non potevo lavorare, le mie forze erano ai minimi termini e dormivo tanto. Lui ha seguito la mia alimentazione così come aveva imparato dal dottor Hyeraci e mi ha condotta verso un’alimentazione ricca di insalata cruda, legumi, verdure poco cotte e frutta per i primi sei mesi. Infatti mi sono disintossicata completamente – e con questa alimentazione tenevo a bada il fegato, affaticato dalle nuove medicine. La pressione polmonare era calata e mi sentivo meglio.
Istituto Maugeri di Milano e San Matteo di Pavia
Ho scelto di farmi seguire dal dottore Bussotti, primario di Cardiologia Respiratoria Riabilitativa dell’Istituto Maugeri di Milano, un anno più tardi. Nel suo ambulatorio sono stata accolta con diagnosi accertata di ipertensione arteriosa polmonare primitiva, e sono entrata in un percorso diagnostico-terapeutico e di follow-up (visite di controllo) a lungo termine, e sono stata introdotta in un percorso riabilitativo. Questo percorso riabilitativo prevede esercizi con un training aerobico lieve, un sostegno psicologico atto a migliorare il comportamento del paziente rispetto alla propria malattia – visto che la ridotta capacità d’esercizio nell’ipertensione polmonare è associata a disturbi di depressione e di ansia – e una dietologa a seguire la dieta di ognuno.
Il Dott. Bussotti è quindi a capo di un team di medici, fisioterapisti, psicologi e dietologi che mette in atto una terapia medica combinatoria e ottimizzata per ognuno dei pazienti: allenamento fisico e respiratorio a bassa intensità, sostegno psicologico che porti il paziente ad imparare a fronteggiare in maniera positiva gli eventi traumatici, riorganizzando positivamente i propri schemi comportamentali dinanzi alle difficoltà.
Nello specifico per quanto concerne l’attività fisica e psicologica ecco alcuni dettagli, presi da altri siti, che potrebbe risultare interessanti:
- Fisioterapisti, Patrycja Krazinsca e Grazia Laccala, esperte in riabilitazione cardiologica, svolgono un ruolo centrale nella progettazione e messa in atto di un programma di allenamento fisico strutturato e hanno dovuto affrontare sfide in continua evoluzione. Sebbene l’allenamento aerobico rimanga la tipologia di allenamento specifica per i pazienti cardiopatici, il bisogno emergente è quello di identificare, valutare e trattare le condizioni di fragilità e cronicità, confrontandosi con questi concetti rilevanti che stanno suscitando rinnovato interesse nell’ambito scientifico e riabilitativo. Mantengono e migliorano i risultati ottenuti dopo il ricovero, introducendo un programma di training fisico in palestra articolato in esercizi calistenici e ginastica respiratoria con Threshold, ad allenamenti allo sforzo con la cyclette e ciclo ergometro (test da sforzo), ed esercizi di resistenza con gli arti superiori ed inferiori con pesi da 500 a 1000 grammi.
- La dottoressa Sommaruga, psicologa/psicoteraupeuta dell’istituto Maugeri, rileva e valuta le caratteristiche della personalità dei pazienti, mirato a migliorare la gestione degli aspetti umorali (ansia e depressione), a sostenere il processo di accettazione della malattia e a facilitarne, quando possibile, l’adattamento; a sostenere la motivazione e l’aderenza al trattamento (medico, riabilitativo, psicologico), a coinvolgere il paziente nella gestione della salute mediante incontri di informazione; a fornire al paziente strumenti di gestione dei correlati somatici di stressors psichici/fisici.
Sono andata poi al Policlinico San Matteo di Pavia per ulteriori esami. Ho avuto fortuna anche lì conoscendo la dottoressa Laura Scelsi, dirigente medico presso l’ambulatorio scompenso cardiaco e trapianti e presso il reparto di cardiologia dello stesso ospedale. Fa parte di un gruppo eccezionale per la cura dell’ipertensione arteriosa polmonare.